Eredità e lascito del più grande gruppo della storia del pop
Ci eravamo affezionati al blog, inutile negarlo. Ma il sole del resto non smette di sbuffare irrequieto; e così facciamo sempre più fatica ad accendere quel computer, proprio mentre il conducente del treno annuncia l'ultima fermata. Eccoci nel punto in cui non avremmo voluto trovarci: la fine della corsa. Come confrontarsi dunque, in chiusura, col mito Beatles ad oltre 40 anni dalla sua nascita? Questione assai spinosa... In cuor nostro speriamo solo che, anche grazie ad un film splendido e inventivo come "Across The Universe", qualcosina abbiamo comunque finito per raccontarla.
Per questo ultimo capitolo ci limiteremo più che altro a dare i numeri, tanto per ribadire l'unicità assoluta di questi quattro ragazzacci nella storia (passata, presente e futura) della musica e cultura pop: a loro spetta il più alto numero di album in vetta alle classifiche UK (ben 15), a loro spetta il più alto numero di copie mai vendute nel mercato discografico USA. Secondo l'etichetta EMI, già nel 1985 le vendite complessive del catalogo Beatles avevano superato il miliardo di copie nel mondo! Numeri impressionanti, forse irripetibili, che raccontano di un'esperienza che è andata ben al di là della musica e il costume. I beatles sono in estrema sintesi un mito; e allora scomodiamo per una volta il dizionario, al fine di cogliere in maniera corretta il significato di una parola a dire il vero un po' abusata: «nella tradizione culturale o religiosa di una civiltà, narrazione simbolica e sacrale di imprese compiute da divinità, eroi, personaggi leggendari e sim., che spiega le origini del mondo, di un popolo, di fenomeni naturali, di istituti sociali, di valori culturali, ecc.» Dunque non c'è dubbio che di mito si tratti: in questa storia troviamo infatti tradizioni culturali, imprese ed eroi capaci davvero di spiegare le origini di istituti sociali e valori culturali per noi fondamentali.
I Beatles, dunque, non solo hanno influenzato una miriade di gruppi musicali vecchi e nuovi, non solo hanno rappresentato un paradigma di riferimento per chiunque abbia voluto confrontarsi coi segreti della forma canzone (songwriting, produzione, arrangiamenti). I Beatles hanno lasciato segni e simboli all'interno dei codici del nostro tempo, finendo per fagocitare qualunque modalità comunicativa, dai video-game ai cartoon, dagli spot televisivi all'industria cinematografica. State pur sicuri che non ci abbandoneranno mai.
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CONTENUTI SPECIALI DEL BLU-RAY DISC
Commento di Julie Taymor ed Elliot Goldenthal - Creando l'Universo - Dietro le quinte - Le stelle di domani - Tutto sulla musica Across the Universe - Le coreografie - Gli effetti speciali - Brani musicali completi - Scena eliminata - "And I Love Her" - Mr. Kite - Riprese alternative - Galleria: Gli schizzi di Don Nace
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Comprende una copia del libro ‘Sgt. Pepper - La vera storia’, in cui si racconta la nascita di uno dei più famosi album della storia del rock, e un prestigioso Lyric Book con tutti i testi originali e le traduzioni in italiano delle canzoni del film.
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mercoledì 30 luglio 2008
Il mito dei Beatles
lunedì 28 luglio 2008
Across the Universe: il film, il musical, i Beatles
Il musical non è un genere cinematografico ma un stato d’animo. Rispecchia l’anima dei suoi realizzatori ma anche quella dei suoi spettatori. Julie Taymor ha diretto diversi musical a Broadway, e anche alcune rappresentazioni operistiche, oltre naturalmente al cinema, con due opere come Titus e Frida che, come abbiamo già detto, hanno qualcosa di fortemente musicale nella loro struttura. Così, avendo sempre a che fare con l'arte e con la musica, firma un film che rilegge la storia di un giovane negli anni'60 in chiave musicale, ed usa le canzoni dei Beatles come ispirazione per i suoi colori, il ritmo e l’ambientazione che ci propone. Un film che da una parte ha qualcosa di familiare e dall’altra qualcosa di unico. Across the Universe è un insieme di quadri musicali, ognuno con un suo carattere che, oltre a descrivere le vicende, rappresentano anche le atmosfere, con la saturazione dei colori, e le coreografie molto vicine a quelle del musical anche classico. Bisogna però sottolineare che il film di Julie Taymor non è comunque un film sui Beatles, bensì commentato dalle canzoni dei Beatles, i cui testi si rinnovano e acquisiscono nuova linfa, poiché la Taymor getta uno sguardo al passato e uno al presente. Usando uno stile modernissimo da videoclip, la regista riesce ad offrirci il ritratto di un'epoca straordinaria e dannata allo stesso momento. Un'immersione nella cultura degli anni ’60 che si sposta dall'operaia Liverpool al creativo Village, saltando a piè pari la Swinging London. Insomma stile, arte, mood del flower-power, una New York ricca di incitamenti e fermenti degli anni '60 fino alla controcultura hippy del Greenwich Village. Uno stimolo multiforme fatto di colori. E passiamo alla musica: gli arrangiamenti spaziano dal gospel al rock, dal blues al pop, e gli esiti riescono il più delle volte ad entusiasmare. Divertente I want you intonato da uno Zio Sam digitale a caccia di soldati da spedire in Vietnam; particolarmente toccante il parallelismo tra fragole sanguinanti e caduti sul campo di battaglia per Strawberry Fields Forever; emozionanti le versioni gospel di Let it be e il finale ottimista, ma mai in modo gratuito, di All you need is love. E ovviamente superlativi gli attori nonostante la giovane età: da Jim Sturgess e Evan Rachel Wood e da Joe Anderson, Dana Fuchs e Eddie Izzard fino a Spencer Liff, T.V. Carpio, e i cammeo di Bono, Joe Cocker e Shalma Hayek sono veramente tutti strepitosi sia quando cantano che quando recitano. Ma ciò che più colpisce in Across the Universe è proprio la leggerezza con cui la Taymor, aiutata nelle scelte musicali dal marito compositore Elliott Goldenthal e nelle ottime coreografie dal grande Daniel Ezralow, osa sfidare il mito, accontentando sia i nostalgici che chi non rientra nelle schiere dei fan del quartetto di Liverpool.
venerdì 25 luglio 2008
Cinema e pacifismo
Across the Universe di Julie Taymor ha scelto di mettere in scena, aiutato dal periodo in cui è ambientato, uno dei temi più battuti dal grande cinema fin da i suoi albori: quello del pacifismo. Che si tratti della guerra in Vietnam o quelle nella vecchia Europa, oppure dei mille e più conflitti in giro per il mondo, la settima arte, con poche sole eccezioni, si è schierata con la pace e mai con la belligeranza. E dato che il ventesimo secolo ha visto alcune delle guerre più sanguinarie di tutti i tempi e il ventunesimo sembra non essere da meno, i film che si sono avvicinati a queste tematiche sono moltissimi, così tanti che è difficile rendergli omaggio in uno spazio come il nostro. Ed alcuni sono dei veri e propri capolavori. Facciamo allora un po’ di storia. Nel 1937 Jean Renoir gira un straordinario poema pacifista come La grande illusione, con Jean Gabin e l’enorme Erich Von Stroheim, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale. Ma già nel 1930 l’americano Lewis Mileston aveva portato sullo schermo il romanzo pacifista di Erich Maria Remarque All’ovest niente di nuovo denunciando gli orrori di ogni guerra. Il cinema ha sempre sostenuto che il conflitto bellico è uno sporco gioco che rende tutti vittime e carnefici allo stesso momento. Tesi che viene dimostrata da pellicole come il cupo e claustrofobico Per il Re e per la Patria di Joseph Losey ma anche dall’eccezionale dittico di Stanley Kubrick formato da Orizzonti di gloria, film ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, e Full Metal Jacket, durante la guerra in Vietnam. Dicono che siamo tutti pacifisti perché nessuno vorrebbe la guerra. Ma è proprio così? Nel 1971 uno tra i più prestigiosi sceneggiatori del cinema americano, vittima del maccarthismo, firma il suo unico film come regista, E Johnny prese il fucile, un’opera disperata contro l’insensatezza della guerra e contro la crudeltà calcolata del potere. E la figura del soldato ridotto a un troncone e coperto da un lenzuolo bianco non si dimentica facilmente. Sempre negli anni ’70 il megaconcerto Woodstock filmato da Michael Wadleigh lancia il maggiore messaggio pacifista: love, peace and music! In anni più recenti è la volta di un regista come Steven Spielberg a dire la sua sulla Seconda guerra mondiale e i suoi orrori con ben due pellicole come Salvate il soldato Ryan e soprattutto con Schindler’s List. In Italia, invece, Gillo Pontecorvo firma con La battaglia di Algeri un grido contro tutti i conflitti. Infine film come No man’s Land di Danis Tanovic e soprattutto La Polveriera di Goran Paskaljevic gettano uno sguardo impietoso sulla guerra in Jugoslavia denunciando una escalation di disperazione, violenza e morte. Dimostrando così che la pace per l’umanità è ancora molto lontana.
mercoledì 23 luglio 2008
Musica e controcultura negli anni '60
The Times They Are A-Changhin'
Beatles iniziatori, Beatles pionieri, Beatles rivoluzionari. Qualunque argomento fin qui affrontato ce li ha sempre mostrati lì, nella prima linea della grande stagione di cambiamento che caratterizzò gli anni '60. Eppure, da un punto di vista strettamente politico, non c'è dubbio che il gruppo di Liverpool rivestì un ruolo consapevolmente defilato, quasi di secondo piano. Osservatori più che attivisti, commentatori sociali più che agit-prop. I Beatles, anche quando si avvicinarono a temi politici (il gap generazionale in While My Guitar Gently Weeps, i dogmatismi del movimento in Revolution1, il sostegno alla candidatura come Governatore della California per il guru Timothy Leary in Come Togheter) sembrarono sempre molto più interessati alla musica che a tutto il resto.
Ben altro coinvolgimento misero in scena i menestrelli del folk-revival del Greenwich Village: Joan Baez, Peter, Paul and Mary, il carismatico Bob Dylan; ma anche voci nere come Odetta e Mahalia Jackson. Musicisti-cantastorie che scrissero letteralmente la colonna sonora del movimento per i diritti civili, salvo poi essere scaricati (Dylan) quando azzardarono l'attacco di un cavo alla chitarra per flirtare col "diavolo" elettrico (vedi la famigerata performance del 1965 al Newport Folk Festival). Altro fenomeno significativo del sentire controculturale d'allora fu il leggendario rock-musical "Hair". Messo in scena per la prima volta nell'Ottobre del 1967, fu un'ingenua e magniloquente piece teatrale che mescolava in maniera inedita pacifismo, libertà sessuale, psichedelia e una nuova forma di spiritualità che preannunciava l'avvento dell'Età dell'Acquario.
Sulla scia di quello stesso movimento hippie, che vedeva nell'uso delle droghe un'opportunità di crescita e liberazione, sorse sulla sponda opposta del continente una scena psichedelica particolarmente sensibile al clima di cambiamento in atto. Parliamo principalmente di Jefferson Airplane, Grateful Dead, Crosby, Stills&Nash e in parte Janis Joplin. Discorso diverso va fatto invece per Doors e Velvet Underground che, nonostante l'evidente ruolo di gruppi anti-establishment e la fascinazione per la frontiera psichedelica (the doors of perception), furono forse i primi a prendere le distanze dalla retorica dell'Estate dell'amore, raccontando, con spirito nichilista ed inquieto, il lato oscuro dell'uomo.
Che quel sogno del resto fosse sulla soglia dell'incubo fu ben chiaro a tutti nel Dicembre del 1969, quando al Free Concert di Altamont, una festa in musica si trasformò in tragedia. L'utopia rock era forse al capolinea: dall'estate dell'amore al buio della morte.
martedì 22 luglio 2008
Il ’68 raccontato al cinema: ribellione, musica e libertà
68, in gradi Celsius, è la temperatura ideale per sviluppare la pellicola in bianco e nero. Questo è un destino. Perché il Sessantotto è un periodo coloratissimo che però, a posteriori, può essere raccontato solo attraverso la pellicola in bianco e nero. Anche se poi nei migliori film che hanno raccontato quel periodo irripetibile c’è sempre stato un pizzico di fantasmagoria in più che serve ad arrivare a quelle immagini psichedeliche che sono diventate il suo simbolo, fra vitalità e disperazione. Il ‘68 è un tema che ha toccato soprattutto il cinema europeo, anche se i suoi echi sono arrivati fino al cinema hollywoodiano con le sue pellicole indipendenti. E Across the Universe di Julie Taymor cita quel periodo e quell’ immaginario cinematografico capace di dire tutto e il contrario di tutto, allargando a dismisura i confini del visibile. Ribellione è la parola d’ordine per un film come Easy Rider - Libertà e Paura con la sua straordinaria colonna sonora, contro le sovrastrutture patriottiche che restringono le frontiere mentali e geografiche. Se il film di Peter Fonda e Dennis Hooper è il capostipite di questo piccolo genere cinematografico, ci sono alcune altre pellicole imprescindibili sullo stesso tema. Fragole e sangue di Stuart Hagman è ambientato durante un’ occupazione universitaria vista dalla parte del suo protagonista, l’occhialuto studente Simon, mettendo in scena la contestazione giovanile con un sottofondo westcoastiano-beatlesiano (memorabile la brutale carica della polizia finale scandita dalla bellissima Give Peace a Chance). Stessa aria (e stessi colori) tira nell’incursione americana del maestro italiano Michelangelo Antonioni. Zabriskie Point è un inno al ribellismo giovanile con una colonna sonora che combina i Pink Floyd con Jerry Garcia dei Greadful Dead e con (come minimo) due sequenze memorabili: quella in cui i ragazzi amoreggiano nel deserto e l’esplosione finale dei simboli del benessere. Ma le ribellioni sessantottine al cinema hanno mille sfaccettature: da quella trasversale e totale, come quella che Pasolini ci lancia nella più ostica delle opere con il suo Salò, e quella sessuale nell’Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, fino a quella contro la tirannia del linguaggio formalizzato in campo cinematografico de El topo di Alejandro Jodorowski e de La Cinese di Jean-Luc Godard fino a Paradise Now di Sheldon Rochlin, ripresa cinematografica dell'omonimo spettacolo del Living Theatre. Una serie di film che hanno voluto denunciare la dolorosa imperfezione di un mondo che pretendeva di essere il migliore possibile, ma che, con i suoi mille errori di ingenuità e i suoi eccessi, ha contribuito almeno a migliorarlo un po’.
lunedì 21 luglio 2008
Prospettive di un cinema interattivo: Blu-Ray Disc, BD-Live e 3D
Negli interventi precedenti abbiamo sottolineato quanto sia importante l’esperienza del Blu-Ray Disc e di come esso rappresenti una strada senza ritorno. Abbiamo sottolineato la straordinaria forza impattante delle immagini di questo nuovo supporto, la cui rivoluzione non si limiterà a suoni e immagini. Le potenzialità che offre il Blu-Ray Disc sul piano dell’interattività sono immense. Al momento il problema è di natura soltanto tecnologica: noi, avendo grazie al disco ottico una memoria tanto ampia e una velocità così elevata, siamo di fronte a possibilità di interazione praticamente infinite. Avendo a disposizione quel tipo di memoria e implementando gli applicativi tecnologici si possono sviluppare una mole enorme di funzioni: il BD-live è una di queste per esempio. Il problema semmai è che non bastano solo i contenuti ma diventa fondamentale l'utilizzo degli stessi. Più accelereranno l'implementazione, più sarà fatto tutto questo prima ancora che questa tecnologia diventi un fenomeno di massa, e più sarà facile poter sfruttare appieno queste applicazioni.
Nei prossimi anni questi sviluppi saranno fondamentali anche per portare nelle case un’altra esperienza che già adesso cattura l’attenzione dell’immaginario collettivo: il 3D. Dovremo ancora aspettare, certo, ma intanto il supporto ce l'abbiamo già perchè il Blu-Ray Disc, avendo una capacità così enorme di memoria, è già pronto per il 3D. Quello che manca per portare il 3D nelle case sono i display che arriveranno quando sarà disponibile a livello commerciale e popolare l'Oled. Quei tempi non sono tanto lontani ma ci vorrà comunque del tempo ed è presumibile che si svilupperà prima per il mercato delle sale cinematografiche, per poi arrivare in quello dell’Home Entertainment.
mercoledì 16 luglio 2008
Across the Universe e il cinema sul Vietnam
Dalla molteplicità dei temi che la regista Julie Taymor ha scelto di inserire nel suo musical moderno, Across the Universe, quello degli echi della guerra del Vietnam è uno tra i più comuni nelle pellicole ambientate negli anni ‘60. Da questo punto di vista, se volessimo scegliere un’altra opera che si avvicina all’energia del film della Taymor, quella è Hair, del 1979, del regista ceco, trapiantato in America, Milos Forman. Scegliamo Hair non solo per il fatto che sia anche esso un musical, ma perché condivide con Across the Universe la stessa visione psichedelica nella sua messa in scena. Ma questi non sono gli unici film che ci hanno parlato della “sporca” guerra. La ferita del conflitto (perso) con il Vietnam percorre tutto il cinema statunitense soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, creando quasi un genere. Attraverso queste pellicole avviene soprattutto il riscatto dell'America, dopo il tradimento degli ideali democratici dei padri. Ma attenzione: non tutti i film che raccontano lo scontro tra Usa e Vietnam sono film drammatici o film di guerra, esattamente come non lo sono quelli della nostra e di Forman. Tra i primi che lo hanno rappresentato è stato, nel 1969, lo splendido Mash di Robert Altman, farsa bellica in cui la guerra è vista come un circo tragico, disperato ed inconcludente. Lo stesso spirito lo troviamo qualche anno più tardi nella strampalata commedia controcorrente e impudentemente antiamericana di Barry Levinson Good Morning Vietnam. Ispirato a un personaggio reale, è un film che, dimenticando finalmente le brutalità nella giungla vietnamita, si basa unicamente sulle battute da caserma sparate a raffica dal protagonista, il bravo Robin Williams, e sulla sua straordinaria colonna sonora. Ovviamente la parte del leone la fanno pellicole più cupe e di alto spessore drammatico in cui la brutalità summenzionata ritorna. Pellicole firmate da registi delle volte eccezionali come Stanley Kubrick, che nel 1987 realizza l’anti-eroico e disperato Full Metal Jacket. Ma forse il film più celebre sulla sporca guerra rimane il bellissimo Apocalypse Now, che Francis Ford Coppola ha confezionato nel 1979. Ovviamente non bisogna dimenticare il reazionario e agile Berretti Verdi di Ray Kellogg e John Wayne, il visionario Birdy – le ali della libertà di Alan Parker, il robusto I guerrieri dell’inferno di Karel Reisz, il commovente e psicologico Tornando a casa di Hal Asby, l’imprescindibile dittico di Oliver Stone con Platoon e Nato il 4 luglio e lo scattante Rambo di Ted Kotcheff. Bisogna però ammettere che, nonostante tante riflessioni, poco è cambiato nel corso degli anni. E così il grande cinema americano continuerà ad occuparsi delle sue guerre in giro per il mondo. Cambierà solo il paese dove sono ambientate.